Lettera Pastorale per l’anno 2017/2018

Lettera Pastorale per l’anno 2017/2018

Aggiungi un posto a tavola

Da Caino e Abele ad Abele e Abele: per una cultura della fraternità autentica.

Anno Pastorale 2017 – 2018

 

Dagli Atti degli Apostoli (11,19-26)

 

Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù. E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore.

La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia.
Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore. Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.

 

Nel passo degli Atti si incontrano, innanzitutto, coloro «che sono stati dispersi a causa della persecuzione scoppiata» dopo il martirio di Stefano. «Sono stati dispersi» ma «portano dappertutto il seme del Vangelo», rivolgendosi però soltanto ai giudei. E poi in modo naturale alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai greci, annunciando che Gesù è il Signore. E così lentamente hanno aperto le porte ai greci, ai pagani. Quando questa notizia giunse alla Chiesa di Gerusalemme, mandarono Barnaba ad Antiochia «per fare una visita d’ispezione» e verificare di persona cosa stesse succedendo. Gli Atti riferiscono che «tutti sono rimasti contenti» e che «una folla considerevole fu aggiunta al Signore».

In poche parole, per evangelizzare questa gente non ha detto: andiamo prima dai giudei, poi dai greci, poi dai pagani, poi da tutti, ma si è lasciata portare dallo Spirito Santo: è stata docile allo Spirito Santo. Così facendo una cosa viene dall’altra, e poi ecco l’altra, l’altra ancora, e così finiscono aprendo le porte a tutti. Anche ai pagani che, nella loro mentalità, erano impuri. Quei cristiani «aprivano le porte a tutti» senza fare distinzioni.

(Papa Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella di Santa Marta, 13 maggio 2014)

 

Scegliamo anche quest’anno di improntare il progetto pastorale parrocchiale sulla lettera che annualmente il Card. Sepe consegna alla Diocesi per respirare quell’aria di comunione che, celebrata in ambito liturgico, diviene poi stile della comunità cristiana.

Siamo giunti alla quarta opera di misericordia corporale “Accogliere i pellegrini”, un monito di drammatica attualità, non solo per il fenomeno ricorrente degli sbarchi dei migranti, ma soprattutto per quel senso di estraneità, di non appartenenza, che spesso mina anche le relazioni più ovvie.

Come intendere, anzitutto, l’Accogliere? Ho ripescato dalla memoria il logo della Comunità Emmanuel, centro pedagogico residenziale, incontrato ripetutamente durante i miei anni di formazione, che raffigura proprio una tenda con queste parole: Accogliere Condividere.

Accogliere sì, dunque, ma nella condivisione! Questo stile potrebbe avvicinarci davvero tanto a un cristianesimo concreto che mira a mettere in pratica le cose che abbiamo imparato, ricevuto, ascoltato e veduto grazie a chi, come l’Apostolo Paolo, senza indugio vive il suo essere guida di Comunità (Fil 4,6-9).

Accogliere una persona significa farla entrare nella propria storia, impegnare del tempo per lei e con lei. Scrive il Card. Sepe nella Lettera Pastorale:

 

«La disponibilità verso l’altro è spesso ostacolata da un cuore ingombro. Soltanto se impariamo a fare a meno di tutto ciò che appesantisce la vita diventiamo liberi, capaci di  accogliere. Solo nel reciproco perdersi può accadere l’incontro. “Chi perderà la propria vita, la guadagnerà per davvero”, ha suggerito ai suoi discepoli il Maestro di Nazaret (cf. Lc 9,22-25). Lo spazio lasciato libero sarà lo spazio disponibile per l’ospite».

 

Ciò che più di tutto ingombra il nostro cuore credo sia ritenere che i nostri problemi, le nostre difficoltà siano più grandi dei problemi degli altri, più irrisolvibili, più pesanti di ogni altra situazione vissuta dagli altri. Ecco allora che l’accoglienza dell’altro potrebbe diventare la nostra risorsa, un’occasione, e trasformarsi da apparente ennesimo ingombro, da apparente ennesimo problema da risolvere, in una soluzione alle nostre stesse difficoltà. L’accoglienza dell’altro, infatti, potrebbe essere la buona notizia che aspettavamo, potrebbe essere l’inizio dell’appianamento anche dei nostri problemi.

E se anche, quest’accoglienza non risolvesse “materialmente” i nostri problemi nell’immediato, la persona accolta con spirito evangelico mi avrà distolto, anche solo per un istante, da quella “pesantezza”, dalla sofferenza della situazione in cui vivo.

Un altro spunto: accogliere per condividere, per sentirsi fratelli, figli di un solo Padre. La domenica soprattutto ci ritroviamo davanti a un tavolo (l’altare) ad ascoltare Uno (il Maestro) che ci parla e che ci dà qualcosa (la sua stessa vita nell’Eucarestia). Ebbene, se solo riuscissimo a mangiare a quel tavolo insieme agli altri, pensando che il Padre lo offre a tutti, potremmo superare il sospetto, la diffidenza dell’altro, per dare spazio alla fratellanza, alla condivisione. A tal proposito, ho trovato particolarmente illuminante la storia che segue.

Si racconta di un’anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco. Il marito era morto durante la guerra. I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare. Si volevano bene ma bastava una parola in più ed erano litigi senza fine. A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.

La mamma diventò vecchia, allora i figli si preoccuparono: «Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché se litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?». «Ma io dovrò pur morire prima o poi», rispose la mamma. «Allora, dissero i figli, inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene».

Mamma Giulia pensò a lungo a ciò e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d’accordo. La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e disse: «Mangiate e cercate di volervi bene». I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime. Di lì a poco Giulia morì. Roberto, Michele e Francesco divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il proprio. Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro. Cominciarono a litigare. Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco, che si mise in mezzo a loro: «Non ricordate la mamma? Perché non facciamo come quel giorno in cui ci ha chiamati al suo capezzale?». Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare.

Mentre mangiavano, nella mente di Roberto e Michele si riaccese l’immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina. Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace. La pace non durava molto, perché vi erano spesso occasioni di litigio. Però avevano trovato la soluzione: ogni volta che si creava un’occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno a un tavolo, prendevano un pane e lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

 

Come tradurre questo desiderio di FRATERNITÀ nell’esperienza della comunità? Qualche proposta:

  • con l’approfondimento di altre confessioni religiose (Islam, Ebraismo, etc.) con i gruppi di catechesi dei bambini (simbolicamente chiamati Fraternity, Fraternidad, Fraternität, Fraternité) e con gli adulti, perché spesso si teme ciò che non si conosce;
  • con le invocazioni e i ringraziamenti al Signore dei singoli fedeli, scritti in forma anonima, che si amalgamano con la liturgia dei giorni feriali;
  • con la disponibilità di figure professionali che all’occorrenza sostengono, in caso di necessità, persone di altre etnie per la risoluzione di qualche problema;
  • con l’apertura più costante dell’oratorio per momenti di aggregazione tra “tutti” i bambini che abitano nel quartiere, certi della verità di quanto il Card. dice nella Lettera Pastorale: «Giocare insieme annulla le disuguaglianze e insegna a valorizzare le differenze»;
  • con altre esperienze che sicuramente nasceranno con la tenacia dello Spirito soprattutto in ambito decanale.

 

Concludo con la preghiera di una grande maestra di fraternità, S. Teresa di Calcutta, nella certezza che anche quest’anno il Signore benedirà il nostro cammino perché la nostra chiesa diventi “Casa di Fraternità” per il quartiere intero.

Con affetto sempre grande, vostro Padre G.

 

Gesù mio, nato in una stalla perché nella locanda non c’era posto per te e la tua famiglia, benedici tutti coloro che offrono ospitalità. Fa’ che abbiano sempre posto per i poveri e per i viaggiatori in cammino. Dà loro il coraggio e la forza di accogliere tutti i loro ospiti e fa’ che ricordino che tutto quello che avranno fatto per loro l’avranno fatto per Te. Gesù mio, benedici tutti coloro che danno ospitalità. Lo Spirito Santo dica loro che saranno bene accetti e privilegiati nel Regno dei Cieli che ospita tanta gente, e soprattutto i più poveri fra i poveri. Amen.